"Abominio"


Le tenebre della prigione, l'odore di piscio e di lerciume, le urla nel sonno dei condannati a morte e dei colpevoli.
E' un lavoro che spaventa, questo, soprattutto all'inizio.
Ricordo ancora i primi turni di guardia notturna, l'inquietudine e il nervosismo, il terrore costante che qualcosa possa andare storto. 
L'unico modo per superare la paura è quella di farsi le ossa e di imparare sul campo, ma per questo ci vuole tempo.
La prima volta che ho diviso due detenuti mi sono beccato una coltellata al fianco. 
Il colpo non era diretto a me, ho solo avuto la sfortuna di trovarmi là in mezzo.
Mi hanno ricucito alla bell'e meglio e il giorno dopo ero di nuovo a lavoro. 
Mi hanno dato quindici punti, ma la struttura è sotto organico, non possono permettersi di lasciare a casa nessuno, e questo lavoro mi serve.
La volta dopo è stata colpa mia.
Era stato un periodo abbastanza tranquillo e ho commesso l'errore di abbassare la guardia.
Alcuni prigionieri mi hanno invitato a giocare a carte con loro perché avevano bisogno di un giocatore, e io ho accettato.
Ricordo solo di aver vinto un paio di mani, prima di incassare una sonora botta in testa e di essermi risvegliato all'interno della guardiola, un grumo di sangue rappreso sulla nuca e un'emicrania fortissima.
Sette punti.
I miei superiori mi hanno chiesto svogliatamente chi fosse stato, ma ovviamente non ho risposto, e loro non hanno insistito più di tanto.
Sanno benissimo che chi parla non dura molto, qui dentro, e questa è una regola che vale sia per i detenuti che per i guardiani.
Da allora è andata meglio.
In qualche anno ho ricevuto la mia buona dose di occhi neri, graffi e tagli, e ho perso un paio di denti.
"Tanto sarebbero caduti comunque" ho detto a mia moglie, per sdrammatizzare, cercando di arrestare il flusso di preoccupazione che le riga le guance ogni volta che torno a casa ferito.
In più di un'occasione, il penitenziario mi ha dato modo di confermare una visione che ho avuto una volta, trasformandola in una lucida certezza che ormai mi accompagna sempre, anche se provo a non pensarci.
Sono certo che morirò qui, e che sarà questo lavoro a uccidermi.
Se sarò fortunato, concluderò in una pozza di sangue, sul freddo pavimento di una cella umida e forse, poco prima di perdere i sensi, avrò abbastanza tempo per pensare ai miei figli. 
Altrimenti, la prigione mi consumerà con calma, silenziosamente, abbrutendomi giorno per giorno fino all'arrivo della mia pensione, quando sputerà fuori dai suoi cancelli nient'altro che un corpo vuoto, un'ombra dell'uomo che ero.
Confesso che questa è l'ipotesi che temo di più.
Questo lavoro ti scivola dentro e non lascia scampo, finché la differenza tra prigionieri e guardie non evapora del tutto.
Alla fine, siamo tutti in carcere.
Ho visto troppe volte gli effetti che questo posto ha sulle persone per poter credere di esserne immune.
Se hai passato qui abbastanza tempo, quale che sia stato il tuo ruolo, ormai hai perso te stesso. 
Ti ritrovi sempre più di frequente a fissare le pareti con sguardo vitreo, senza pensare, trasportato mollemente dagli eventi, come una foglia in balia del vento. 
Azione e reazione. Poi, inerzia.
Dormi moltissimo, nella tua cuccetta o alla tua postazione: una natura morta a grandezza umana.
Dopo anni, diventi piatto come un foglio di carta, bidimensionale e inerte.
Il processo è già cominciato, me ne sono accorto anch'io in un attimo di introspezione.
Sempre più spesso vagabondo per il carcere senza meta o coscienza, ritrovandomi altrove senza neanche rendermene conto.
Un tempo avrei avuto paura.
Adesso, non me ne importa più niente.

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