Sirene



Vigile e attento, con un accenno di impazienza e nervosismo, il capitano Harrison squadrava senza sosta il quadrante digitale sul suo avambraccio sinistro, attraverso il casco retroilluminato della propria tuta spaziale.
Gli sembrava di trovarsi lì, solo tra quegli asteroidi, ormai da ore, e probabilmente era così.
Senza punti di riferimento (come il Sole o qualche stella che fosse familiare) era difficile tenere il conto dei minuti che passavano. La rocce intorno a lui, pur attratte le une dalle altre e pur ruotando tutte insieme attorno ad un comune punto fisso, non consentivano per nulla di orientarsi, accrescendo, invece, la confusione temporale di Harrison.
Ancora una volta, come spesso gli era capitato di fare negli anni passati, il capitano maledisse la propria strumentazione. Il quadrante digitale infatti, strumento assolutamente indispensabile e obbligatorio per qualunque elemento della Flotta Stellare, era dotato di ogni genere di software e programma. Era in grado di risolvere, in un lampo, complicatissime equazioni matematiche, di tradurre istantaneamente qualsiasi linguaggio conosciuto dall'uomo, di segnalare la presenza, anche minima, di radiazioni nelle vicinanze, e la percentuale di ossigeno nelle atmosfere. Era uno strumento superlativo: indistruttibile, impossibile da manomettere e dotato di una carica neutronica pressoché infinita.
Ma mancava l'orologio.
Quegli stupidi del centro ricerche avevano gioito alla presentazione del prodotto.
“Il BioWatchY5000! Prodigio della tecnica e dell'elettronica. La rivoluzione dei viaggi intersistema è finalmente arrivata!”, aveva proclamato trionfalmente un famoso slogan, bombardato su tutti i canali qualche anno prima.
L'esaltazione era salita alle stelle. Centinaia di aziende avevano comprato il prodotto, vinte da un febbrile desiderio di possesso, prima fra tutte la Flotta Stellare. Solo in seguito ci si era resi conto della mancanza ma, a quel punto, il danno era fatto: i BioWatch erano ormai installati su migliaia di tute spaziali, progettate e costruite appositamente per integrarli. Milioni e milioni di crediti erano stati spesi e l'unica cosa che restava da fare era quella di tenersi l'apparecchiatura d'avanguardia, seppur con quel lieve difetto.
Per il capitano Harrison, però, quell'assenza era assolutamente intollerabile.
Controllare periodicamente l'ora gli era sempre stato indispensabile per gestire i propri impegni e, arrivato a quel punto della sua esistenza, era diventato un gesto praticamente automatico, nella sua quotidianità. Senza orologio si sentiva a disagio, quasi perduto, ancor più che a stare solo in mezzo al vuoto siderale, con null'altro attorno a sé che una manciata di polveri, pulviscolo e rocce.
Certo, avrebbe potuto chiedere l'ora al suo sottoposto, il tenente Sanson, ma dopo un paio di volte si sarebbe sentito ridicolo e, comunque, non sarebbe stata la stessa cosa. Inoltre, Harrison non era mai riuscito a sopportare Sanson e la sua bocca larga, incline alla logorrea come poche, e aveva deciso di troncare ogni comunicazione con la nave madre, fino a quando non si fosse ritenuta assolutamente necessaria. Ad ogni modo, i suoi uomini erano in grado di vedere tutto quello che vedeva lui grazie al collegamento video, per cui non c'era nulla da temere.
Il silenzio regnava sopra ogni cosa.
Da qualche parte, nascosta dietro uno degli asteroidi più grandi, il capitano Harrison sapeva che la sua nave e il relativo equipaggio lo attendevano con ansia, preoccupati per il suo destino.
Nell'ultimo mese, due squadre di uomini erano spariti in quello stesso quadrante, a poche miglia esatte dal punto in cui si trovava ora. La prima, composta da un team di trivellatori, si trovava in quel settore per prelevare minerali rari dalla fascia di asteroidi, da rivendere una volta ritornati sulla Terra o alle colonie. Nessuno li aveva più visti o sentiti, e persino la loro nave era svanita senza lasciare traccia.
Il capitano Harrison e il suo equipaggio erano stati mandati ad indagare sull'accaduto e, giunti in prossimità dell'ammasso di rocce, avevano inviato senza sosta dei segnali di comunicazione.
Non avendo ricevuto alcuna risposta nelle dodici ore successive, Harrison aveva provveduto, come da protocollo, a rilasciare un drone-sonda, per monitorare la situazione. Dopo poche ore, il segnale del drone aveva cominciato a subire delle interferenze, per poi interrompersi del tutto.
A quel punto, una squadra di sei uomini era stata inviata a controllare di persone, ma anche loro erano spariti; nessuno aveva fatto ritorno.
La Flotta, nella persona del maggiore Creedy, si era mostrata alquanto indispettita.
Un simile spreco di risorse e di uomini andava giustificato, non poteva restare privo di spiegazioni. Urgevano accertamenti, ma il rischio sarebbe dovuto essere minimo: un solo uomo, equipaggiato con un'astrotuta, avrebbe raggiunto la zona delle sparizioni, per fare chiarezza.
Preoccupato per la sorte dei suoi uomini, e sentendosi responsabile per loro, il capitano Harrison si era offerto volontario. O, almeno, questa era la versione ufficiale.
La verità, nuda e cruda, era che il maggiore Creedy si stava approfittando della situazione, come sempre.
Non correva buon sangue, tra lui ed Harrison, sin dai tempi dell'accademia.
Ciascuno dei due aveva tentato, ed era riuscito più di una volta, ad umiliare l'altro in una mezza dozzina d'occasioni, ricavandone in cambio una considerevole dose di soddisfazione personale.
Il motivo di quella rivalità si era ormai perduto nel tempo e nella nebbia dei ricordi, tanto che nessuno dei due avrebbe potuto, se interrogato, rievocarlo alla mente.
L'astio reciproco era davvero radicato in profondità nell'animo di entrambi ma, senza dubbio, era Creedy la persona maggiormente ossessionata da quel conflitto.
Aveva edificato la sua intera carriera su quell'odio viscerale, non perdendo neanche una singola occasione per potere ingigantirlo a dismisura. E adesso, ancora una volta, tornava alla carica.
Non aveva perso tempo; venuto a conoscenza delle recenti scomparse sulla fascia di asteroidi, si era affrettato a inviare una comunicazione alla Calliope, la nave di Harrison.
Dapprima aveva enumerato, di fronte all'equipaggio, senza fronzoli né mezzi termini, le numerose mancanze di Harrison, come capitano e come uomo: un irresponsabile, incapace di gestire i propri uomini e le risorse della flotta. Dopodiché, aveva costretto Harrison ad un colloquio privato, ordinandogli di indagare lui stesso sulle sparizioni, per impedire che il Corpo Interstellare si coprisse di ridicolo. In questo modo, Creedy aveva preso due piccioni con una fava.
Se Harrison non fosse tornato, perdendosi, come gli altri prima di lui, il maggiore Creedy si sarebbe finalmente sbarazzato del proprio rivale, e avrebbe vinto. Se invece Harrison fosse tornato, da solo o insieme agli uomini scomparsi, avrebbe comunque passato un brutto quarto d'ora col Consiglio della Flotta. Il regolamento, infatti, proibiva esplicitamente a un capitano di abbandonare la propria nave, se non in condizioni di estrema emergenza, o per ordine di un superiore.
A Creedy sarebbe bastato negare che la comunicazione privata tra lui e Harrison fosse mai avvenuta e, in virtù del proprio stato di servizio e delle proprie conoscenze, portare contro il capitano parte del Consiglio nel processo che, inevitabilmente, sarebbe seguito.
Harrison avrebbe rischiato di essere degradato o, peggio, di essere espulso dal Corpo.
Nonostante fosse consapevole di tutto questo, il capitano Harrison non si era comunque potuto esimere da quel compito; Creedy era stato parecchio abile nel denigrarlo, colpendolo nei punti giusti e dandogli del pusillanime di fronte a tutto l'equipaggio. Inoltre, il maggiore si era assicurato del tutto l'obbedienza di Harrison esprimendo il proprio ordine sotto forma ufficiale.
Harrison si era sentito gelare.
Ogni membro della Flotta, durante i mesi, o gli anni, di addestramento veniva condizionato psicologicamente, poco a poco, per obbedire agli ordini dei propri superiori.
Il processo aveva una durata variabile da individuo a individuo, ma il risultato era sempre inequivocabile e identico per tutti: lealtà assoluta, sempre e comunque.
Salendo di gerarchia, di volta in volta, si veniva decondizionati per gradi, in un lasso di tempo di qualche settimana per ogni grado, ma un libero arbitrio totale ed assoluto lo si riotteneva solamente tra i ranghi più alti dell'esercito, tra l'élite.
L'ordine di Creedy era stato chiarissimo, fin nei dettagli, per non lasciare a Harrison alcuna possibilità di sfuggire al suo destino. Il maggiore aveva, oltretutto, comandato al capitano di tacere riguardo l'ordine ricevuto, e di fingere che si trattasse di una sua idea.
A dirla tutta, a Harrison non importava granché del proprio equipaggio, ma li considerava, anzi, una banda di chiassosi rincitrulliti. Nessuno di loro avrebbe capito cos'era successo in realtà e, interrogati, avrebbero finito per metterlo nei guai ancora di più. Sarebbe stato inevitabile.
Anche per questo motivo il capitano aveva interrotto ogni tipo di comunicazione: troppo nervosismo e stress gli derivavano da quei contatti col proprio equipaggio e Harrison, già teso oltre misura, non aveva intenzione di mettere ulteriormente a repentaglio la propria sicurezza.
Con la rapidità e l’efficienza acquisite in innumerevoli simulazioni, l’uomo calibrò attentamente i comandi dell’astrotuta, in modo da riuscire a compiere un balzo sino all’asteroide successivo. Un silenziosissimo getto di plasma fuoriuscì dal serbatoio sulla sua schiena, proiettandolo in avanti, verso la sua destinazione. Harrison si prese un momento per osservare le rocce galleggianti intorno a sé. Un singolo respiro, profondo e liberatorio, fu sufficiente a coprire il tragitto e a restituire al capitano un certo grado di tranquillità.
Effettuò un altro balzo, e un altro ancora, avvicinandosi sempre più al luogo esatto delle sparizioni.
Ogni piccolo volo lo rendeva significativamente più sereno, più libero e gratificato.
Si concentrò su dove era e su qual era il proprio scopo, mettendo da parte, finalmente, i propri timori riguardo al futuro.
Il presente era tutto quello che importava.
Compreso questo, il ricordo della voce di Sanson non sembrò più così irritante, né gli atteggiamenti del proprio equipaggio così incompetenti e goffi.
Una mite benevolenza si diffuse nell’animo di Harrison che, quindi, si risolse a comunicare coi propri sottoposti.
<<Qui Harrison a ponte di comando. Sto per entrare nello spazio incriminato, passo.>>
Nessuna risposta.
<<Qui Harrison a ponte di comando. Sto per entrare nello spazio incriminato, passo.>> ripeté.
Di nuovo, nessuna risposta.
Benché un piccolo moto di irritazione, nervosismo, o anche di paura potesse essere ben giustificato, in seguito all’impossibilità della comunicazione con la nave madre, il capitano non fece una piega.
In quell’istante, era preda di una calma pressoché assoluta, quasi estatica, totale.
Proseguì.
La sua mente era ormai sgombra da ogni pensiero, la sua volontà del tutto annullata.
Persisteva solamente una placida, tenera spinta volitiva, che gli diceva di andare avanti, avanti, oltre i detriti e le polveri, sino al centro del mondo.
Genuinamente, senza trambusto né indiscrezione, un tenue bagliore cominciò a brillare nell’oscurità di fronte ad Harrison, appena dietro una roccia particolarmente massiccia.
Il capitano la superò con eleganza, senza toccarla e si trovò di fronte uno spettacolo meraviglioso.
La luce, di tonalità bianco-azzurrognola, splendeva incontrastata e lieta, avvolgendo ogni cosa in un caloroso abbraccio.
Harrison ne fu completamente avvolto, provando un senso di sollievo, gioia e gratitudine.
Di fronte a lui, una creatura gigantesca, dieci volte più alta di qualsiasi costruzione umana, lo stava fissando, coi suoi molti occhi.
Era proprio quell’essere a emanare quella luce inebriante, quel senso di pace che permeava senza scampo lo spazio e i cuori nelle vicinanze.
La creatura, assolutamente immensa, possedeva vagamente dei tratti umanoidi, ma questi erano ben mitigati da una serie di pinne, sul dorso e caudali, presenti in molteplici fila.
Ma la cosa più stupefacente di tutte era, senza dubbio alcuno, il suono che circondava quell’apparizione irreale, un suono angelico, celestiale, amico.
Benché si trovassero nello spazio, infatti, le note emesse da quel canto arcaico, antico quanto l’universo stesso, si distinguevano perfettamente.
Harrison prese a piangere in silenzio, commosso oltre ogni dire.
E si lasciò ingoiare.



<<Capitano Harrison? Capitano Harrison, mi riceve?>>
Sanson cercava disperatamente di contattare il proprio superiore già da una ventina di minuti; da quando, cioè, i segnali vitali del proprio capitano erano scomparsi dal monitor di fronte a sé.
<<Capitano Harrison! Risponda, la prego!>>
Silenzio.
Sanson imprecò sommessamente.
<<Dannazione! – pensò tra se e se – Ma perché è voluto andare da solo? Non era meglio organizzare un’altra squadra, oppure lasciarsi aiutare? Perché ha voluto correre questo rischio?>>
Sanson non sapeva proprio spiegarselo. Sapeva bene, ormai da tempo, che il proprio capitano era un uomo eccezionale: ligio al dovere e coraggioso oltre misura. Per non mettere a repentaglio la vita di altri membri del suo equipaggio, Harrison si era imbarcato in prima persona per una missione pericolosissima. Di certo, l'amore del capitano verso i propri sottoposti era ben maggiore di quanto Sanson avesse immaginato fino a quel momento.
Una spia luminosa cominciò a pulsare con insistenza di fronte al tenente, accompagnata da un rumore d’avviso, segno dell’arrivo di una comunicazione esterna.
Sanson premette un bottone e, sul monitor di fronte a lui, comparve l’immagine del mellifluo volto del maggiore Creedy.
<<Calliope - esordì il maggiore, gli occhi freddi come il ghiaccio – Qui parla il maggiore Creedy, mi ricevete?>>
<<Forte e chiaro, signore.>> rispose Sanson, assumendo una postura più composta.
<<Vorrei un rapporto sulla vostra situazione. Notizie sulla squadra scomparsa?>>
Sanson si agitò leggermente sulla sedia: <<Ancora nessuna novità, maggiore>>
Creedy aggrottò un sopracciglio.
<<Che misure avete preso per recuperare i dispersi?>>
Il tenente, cercando di mantenere un tono calmo e distaccato, rispose alla domanda: <<Abbiamo inviato un uomo nella zona delle sparizioni qualche ora fa.>>
<<E l’uomo non ha ancora fornito aggiornamenti? Ha trovato qualcosa?>>
Sanson prese a sudare sensibilmente.
<<No, signore. Non ne ha trovate. In effetti, è disperso anche lui.>>
Il viso di Creedy sul monitor accennò un brevissimo sorriso, talmente rapido che il tenente Sanson quasi non se ne avvide.
<<Ho capito. Calliope, in questo caso vi ordino di rientrare immediatamente.>>
Il tenente sgranò gli occhi: <<Ma… Maggiore Creedy! In un caso del genere il protocollo prevede…>>
<<Pensa che non conosca il protocollo, TENENTE?!? Si ricordi con chi sta parlando. Le ho ordinato di rientrare, non discuta.
Disperato, Sanson giocò un’ultima carta: <<Ma signore! L’uomo disperso… Ecco… Si tratta del capitano Harrison! Non possiamo rientrare senza di lui!>>
Creedy rimase impassibile.
<<Le ho dato un ordine, tenente. Abbiamo già perso troppi uomini e troppe risorse in quel quadrante. Rientrate immediatamente.>>
Detto questo, il maggiore interruppe la comunicazione, lasciando il povero Sanson preda dell’angoscia e dell’abbattimento.
Non poteva rifiutarsi di eseguire l’ordine, neanche volendolo.
Si preparò a comunicare la notizia del rientro al resto dell’equipaggio, sentendosi un verme, incapace di compiere qualcosa di concreto per il proprio capitano.
Si mise le mani tra i capelli, disperato.
Proprio in quell’istante, il suo monitor si accese nuovamente, segnalandogli una comunicazione dati.
Il tenente alzò gli occhi, sperando, con una certa trepidazione, che provenisse dal capitano, ma si ritrovò, invece, a leggere una serie di analisi e di informazioni provenienti dal drone sonda della Calliope, redivivo dopo quasi un giorno dalla sua scomparsa.
Il tenente Sanson lesse fino in fondo tutti i dati e, non appena fu consapevole di quanto accaduto, cominciò a urlare.
I dati comunicavano infatti, senza dubbio alcuno, la presenza di un piccolo buco nero e che, nelle ultime ore, si era accresciuto.
La sconcertante verità, così palese di fronte ai suoi occhi, precipito Sanson nel più profondo e ineluttabile sconforto.
Ma come era stato possibile?
La massa di quel buco nero era molto, troppo piccola perché questo potesse attirare alcunché al proprio interno.
Il capitano Harrison vi si era forse gettato dentro di proposito? Ma perché? Cosa mai poteva averlo spinto ad un simile gesto?
La situazione era grave, l’urgenza pressante.
Sanson fece per riavviare una comunicazione col maggiore Creedy: l’intera flotta doveva essere avvisata di quel pericolo, era essenziale.
Eppure, il dito del tenente indugiò a lungo sul pulsante per le trasmissioni esterne, inspiegabilmente incerto, data la situazione.
Alla fine, il braccio di Sanson ritornò sul bracciolo della poltrona, al posto che gli competeva.
Il viso dell’uomo si rilassò e tutta l’agitazione di pochi istanti prima si dissolse nel nulla, quasi come se non fosse mai esistita.
<<Non c’è bisogno di avvisare gli altri per così poco - ritenne Sanson, con una consapevolezza e una tranquillità che raramente aveva assaporato in vita propria - Sollevare un polverone a ogni nonnulla non è certo la mossa più opportuna.>>
Esaminò nuovamente i dati provenienti dal drone sonda, sorridendo.
Nei meandri del suo cuore, esattamente al centro del proprio essere, qualcosa cominciò a cantare.



Commenti

Post popolari in questo blog

"Sole di Mezzanotte"

Sogni Improbabili - La foresta

"Maschere"